domenica 21 febbraio 2010

Quaresima: Tempo di "agonismo spirituale"

Le parole del Papa all'Angelus di oggi.

Cari fratelli e sorelle!

Mercoledì scorso, con il rito penitenziale delle Ceneri, abbiamo iniziato la Quaresima, tempo di rinnovamento spirituale che prepara alla celebrazione annuale della Pasqua.

Ma che cosa significa entrare nell’itinerario quaresimale? Ce lo illustra il Vangelo di questa prima domenica, con il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Narra l’Evangelista san Luca che Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, "pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito Santo nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo" (Lc 4,1-2). È evidente l’insistenza sul fatto che le tentazioni non furono un incidente di percorso, ma la conseguenza della scelta di Gesù di seguire la missione affidatagli dal Padre, di vivere fino in fondo la sua realtà di Figlio amato, che confida totalmente in Lui. Cristo è venuto nel mondo per liberarci dal peccato e dal fascino ambiguo di progettare la nostra vita a prescindere da Dio. Egli l’ha fatto non con proclami altisonanti, ma lottando in prima persona contro il Tentatore, fino alla Croce. Questo esempio vale per tutti: il mondo si migliora incominciando da se stessi, cambiando, con la grazia di Dio, ciò che non va nella propria vita.

Delle tre tentazioni cui Satana sottopone Gesù, la prima prende origine dalla fame, cioè dal bisogno materiale: "Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane". Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura: "Non di solo pane vivrà l’uomo" (Lc 4,3-4; cfr Dt 8,3). Poi, il diavolo mostra a Gesù tutti i regni della terra e dice: tutto sarà tuo se, prostrandoti, mi adorerai. È l’inganno del potere, e Gesù smaschera questo tentativo e lo respinge: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto" (cfr Lc 4,5-8; Dt 6,13). Non adorazione del potere, ma solo di Dio, della verità e dell’amore. Infine, il Tentatore propone a Gesù di compiere un miracolo spettacolare: gettarsi dalle alte mura del Tempio e farsi salvare dagli angeli, così che tutti avrebbero creduto in Lui. Ma Gesù risponde che Dio non va mai messo alla prova (cfr Dt 6,16). Non possiamo "fare un esperimento" nel quale Dio deve rispondere e mostrarsi Dio: dobbiamo credere in Lui! Non dobbiamo fare di Dio "materiale" del "nostro esperimento"! Riferendosi sempre alla Sacra Scrittura, Gesù antepone ai criteri umani l’unico criterio autentico: l’obbedienza, la conformità con la volontà di Dio, che è il fondamento del nostro essere.
Anche questo è un insegnamento fondamentale per noi: se portiamo nella mente e nel cuore la Parola di Dio, se questa entra nella nostra vita, se abbiamo fiducia in Dio, possiamo respingere ogni genere di inganno del Tentatore. Inoltre, da tutto il racconto emerge chiaramente l’immagine di Cristo come nuovo Adamo, Figlio di Dio umile e obbediente al Padre, a differenza di Adamo ed Eva, che nel giardino dell’Eden avevano ceduto alle seduzioni dello spirito del male di essere immortali, senza Dio.

La Quaresima è come un lungo "ritiro", durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire, di "agonismo" spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza. In questo modo potremo giungere a celebrare la Pasqua in verità, pronti a rinnovare le promesse del nostro Battesimo.

Ci aiuti la Vergine Maria affinché, guidati dallo Spirito Santo, viviamo con gioia e con frutto questo tempo di grazia. Interceda in particolare per me e i miei collaboratori della Curia Romana, che questa sera inizieremo gli Esercizi Spirituali.

Buona Quaresima a tutti.

giovedì 11 febbraio 2010

Vittorio Bachelet a trent'anni dalla sua uccisione

Ci tenevo a ricordare la figura di Vittorio Bachelet a trent’anni dal suo martirio per mano delle Brigate Rosse.
Un uomo che seppe essere punto di riferimento con la propria vita e con l’impegno civile e politico; un cristiano capace di vivere la propria fede nella storia, al servizio della carità nei rapporti personali e nella costruzione di una città comune.

Domani a Roma inizierà l'annuale convegno su "V. Bachelet: Testimone della Speranza" alla presenza del Presidente della Reppubblica.

Come associazione abbiamo programmato un incontro di fromazione e di preghiera su questo "Gigante" della Chiesa cattolica. La storia ogni tanto ci dona dei veri e propri giganti. Uno di questi è stato sicuramente Vittorio Bachelet, un coraggioso e tenace testimone della speranza. Un costruttore di futuro. Ricordato, da quanti l’hanno conosciuto, come persona dal carattere mite, che non faceva mai mancare la fermezza nelle scelte, l’operosità nella vita, lo sguardo sereno nel guardare al mondo e alle sue ansie. Apparteneva certamente a quella generazione che con i propri sogni, la propria serietà nello studio, il proprio impegno per gli altri contribuì significativamente alla ricostruzione dell’Italia, dopo le macerie della guerra, e poi al grande fermento che porterà al Concilio Vaticano II.

Mi è sembrato molto bello, profondo e siginificativo l'articolo pubblicato sull'Osservatore Romano a firma di Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio.
Lo pubblico per intero certo di fare cosa gradita a tutti.

Mio padre

di Giovanni Bachelet Università di Roma La Sapienza

"Il Signore disse a Gedeone: "La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato. Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro"" (Giudici, 7, 1-3). Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto. Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento. Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese - e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore - irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.


Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni XXIII, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell'Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio. Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia. Per trasformare l'Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un'inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti). Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l'impegno politico - e lo sport, e altre cose buone per le quali l'Azione cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza - all'autonoma responsabilità dei laici. Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito "i giorni dell'onnipotenza", al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.

Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone. Ad "avere attenzione alla realtà dell'uomo di oggi senza chiudersi nell'alterigia del fariseo (...) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo", come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l'assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un'intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione. Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l'emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all'avvento della democrazia associativa, con la "continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione", che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all'Azione cattolica nel 1973.

Molte di queste cose le ho capite meglio dopo. Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro. Sapevo che era assistente nazionale dell'Azione cattolica e che c'era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all'italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze.

Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell'Azione cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare. Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell'Azione cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c'era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell'accettare un progresso fatto di piccoli passi. La consegna era quella di portarsi appresso tutti: trasferire gradualmente e senza strappi all'intero popolo di Dio "privilegi" anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica. Il senso dell'umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l'ansietà nella realizzazione del dettato conciliare. Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l'omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno: "Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo". Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che "in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori". Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa: dopo secoli di trono e altare - diceva - ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini...

Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell'agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la "scelta religiosa" dell'Azione cattolica. "Nel momento in cui l'aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono", diceva papà.

Dunque la Chiesa, e con essa l'Azione cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria: evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento. Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica: al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull'apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura "la più alta forma della carità".

Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l'università e l'Azione cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana. Certo votava per quel partito, convinto che "i pochi che ci assomigliano sono lì", ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella "nuova Dc" di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere. Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente. In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan "né con lo Stato né con le Brigate Rosse"; c'era anche chi tramava nell'ombra, fra logge e bombe sui treni. Stare con la magistratura richiedeva coraggio. Come poi si vide.

Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare. Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo: "Non pensate che (...) c'è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que' milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?" (I promessi sposi, xxv). Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all'ultima assemblea del 1973: "Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno. Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi. Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede". Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme. In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno: preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino. La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio. In uno dei ricordi più dolci dell'infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera: Oremus pro pontifice nostro Ioanne... da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.

Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent'anni non aveva mai notato: Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio. Due brani erano sottolineati a matita da papà. Il primo diceva: "Solo chi dà se stesso crea futuro. Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile". L'altro brano, nell'ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva: "Il futuro della chiesa (...) non verrà da coloro che prescrivono ricette (...) o invece si adeguano al momento che passa (...) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (...) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all'uomo (...) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi". La fede, l'amore e l'obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi. Papà era invece convinto che "cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell'obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa". Ne sono convinto anch'io, e, a trent'anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace".

Da "L'Osservatore Romano - 12 febbraio 2010".

martedì 2 febbraio 2010

Il Messaggio del nuovo Vescovo di Caltagirone.

MESSAGGIO PER LA DIOCESI DI CALTAG1RONE
del Nuovo Vescovo S. E. Mons. Calogero Peri OFM Capp

Popolo santo dell'amata Chiesa di Caltagirone,
carissimi fratelli e sorelle, il Signore vi dia Pace!

Da quando sua Santità, il Papa Benedetto XVI, mi ha nominato vostro vescovo, senza ancora conoscervi mi siete diventati cari.
Tutti, e tutti in una volta! Tutti insieme, e ciascuno in particolare!
Non so proprio cosa mi sia successo. In quel groviglio di emozioni e di sensazioni contrastanti, in quel rincorrersi di stati d'animo così coinvolgenti e sconvolgenti, il nome, la storia, il volto di ciascuno di voi, fino a ieri per me anonimo, è venuto avanti e soprattutto mi è entrato dentro. Non so spiegarvi, ma voglio dirvelo, quanto mi siete diventati preziosi, familiari, e più ancora amici. Da ciò è nato il desiderio e l'urgenza di rivolgermi a voi con queste prime parole di saluto, di presentazione, di speranza, ma anche di richiesta di aiuto e di preghiere, per quello che sta sconvolgendo la mia vita.
Accettatele come se le indirizzassi personalmente a ciascuno di voi, e come se riuscissi a rispondere a quello che ognuno di voi desidera. Vogliono essere parole di affetto, di stima, per il popolo santo di Dio della gloriosa diocesi di Caltagirone, alla quale oggi il Signore mi invia. A sua Ecc. Mons. Vincenzo Manzella mio amato predecessore, per lunghi anni Vescovo e ora Amministratore della nostra Diocesi. A lui esprimo con gratitudine e fin da adesso, la mia e vostra riconoscenza per quanto si è speso, con dedizione, nel suo ministero. Al vicario episcopale, al presbiterio tutto, eletta corona della nostra Chiesa. Ai diaconi, ai seminaristi, ai consacrati e consacrate, alle confraternite, alle associazioni, aggregazioni, ai movimenti ecclesiali, e a tutti i gruppi. Alle autorità civili e militari di ogni ordine e grado. A quanti, a diverso titolo e modo, esprimono la bellezza composita della Chiesa di Caltagirone. Che bella la Chiesa, la nostra Chiesa, per la sua lunga tradizione di arte e di cultura, di pensiero e di pensatori, di uomini grandi e determinanti! Per il suo glorioso passato, per il suo presente pieno di fervore, per il suo futuro colmo di speranza.
Ma dentro questa Chiesa, e non solo, non dobbiamo mai dimenticare che ci sono persone vive, in cui riposa l'amore di Dio, in cui vive Gesù Cristo e agisce potentemente lo Spirito. Aiutatemi per questo a portare il mio saluto anche a quelli che dicono di credere in Dio e non alla Chiesa, a quelli che noi indichiamo come lontani, che non sono praticanti e non frequentano le nostre chiese. A coloro che pensano, a volte anche per colpa nostra, di potere fare a meno di Dio nella loro vita. Se un pensiero particolare, un'inquietudine, dobbiamo coltivare dentro di noi è proprio per loro, per i poveri, i sofferenti, gli emarginati, gli immigrati, gli indifferenti, i carcerati nel corpo e nello spirito, Per coloro che non hanno voce e spesso neppure volto. Che non hanno nessuno su cui contare, e che dovrebbero comunque avere sempre accanto a loro un credente in Cristo, quale buon samaritano di turno.
Quanto è insondabile il mistero di questa nostra esistenza, fragile ed esaltante. Soprattutto quando essa, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, crede, spera e ama.
Che mistero Dio, che misteriosa l'azione del suo Santo Spirito, la sua unzione sul corpo vivente di Cristo che siamo noi, la sua Chiesa! In questo momento così decisivo per me e per voi, così importante per quello che mi aspetta, e per quello che da me vi aspettate, desidero contare su ciascuno di voi. Sebbene continui a chiedermi per quello che mi è capitato: "Come è possibile?", e sebbene perduri il combattimento di opposte ed estreme sensazioni, ripeto a Dio e a voi il mio "Sì". E per tutto quello che non so, e che non riesco neppure ad immaginare, con timore e gratitudine, pronuncio fiducioso il mio "Eccomi". Vi chiedo di starmi vicino e di attendere insieme, in preghiera, il dono dello Spirito per la mia consacrazione episcopale. A Dio piacendo, sarà in mezzo a voi nella nostra Chiesa cattedrale. Ma se non sono inopportuno nell'avanzare ancora una richiesta, vi chiedo la carità di un piccolo anticipo dì fiducia e di affetto. Lo so che tocca a me darvi per primo la stima, l'amore, l'amicizia, ma come gia vi ho detto, l'avete pienamente e tutti senza condizioni.
C'e un imperativo di Dio che mi accompagna fin dall'inizio del mio presbiterato È una Parola del mio Signore che ha illuminato i miei passi e ha guidato le mie scelte, e che oggi, con più urgenza, mi ritorna sconvolgente nella mente e nel cuore. Come un giorno Isaia sentiva di gridarla a Gerusalemme, con la stessa potenza sento di donarla alla nostra Diocesi, di donarla a voi: "Sali su un alto monte e grida tu che rechi liete notizie in Sion, tu che rechi liete notizie per Gerusalemme" (Is 40,9). Vengo nella consapevolezza che il Signore non mi chieda tanto altro, ma di gridare il Vangelo, questo sì. Sicuramente mi manda ad annunciarvi, da subito e senza stancarmi, la liberazione, la speranza, la misericordia, e quell'amore eccessivo che lo ha spinto a donarsi fino alla croce e a donare il suo corpo per noi. La carità di Dio, a preferenza di ogni altra insegna e segno, posta al di sopra di tutto, per me e per voi, sia il segno distintivo della nostra Chiesa. Per iniziare subito e senza tentennamenti, da parte del Signore abbiamo tutti un solo imperativo: "Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi" (Gv 15,12). E per darvi subito l'esempio, per quel che so e che posso, vi dono la carità e l'amore che Cristo buon pastore mi ha messo dentro per voi. Per fare quello che fa Dio, facciamo a gara nell'amarci e stimarci a vicenda, nell'amare e stimare tutti, E l'unica condizione per essere suoi discepoli e per risultare credibili.All'inizio di questo servizio, rispetto al quale non solo mi sento indegno, ma pure impreparato, per voi e con voi mi voglio aggrappare a Cristo. È Lui il pastore grande del suo gregge, in ogni tempo ed in tutti i luoghi. È Lui che ci porta tutti. E lui che oggi mi porta a voi, perché io vi porti a Lui. Perché né io ho scelto voi, né voi avete scelto me, ma Egli vi ha scelti per me e mi ha scelto per voi. Questo, pur nella tempesta delle emozioni, mi dà tanta pace. A Lui, Signore e Pastore delle nostre anime, insieme, rinnoviamo la nostra fiducia, la nostra fede e fedeltà. E saremo sicuri di non restare delusi.

Affido pure ai santi della nostra Chiesa di intercedere per me e per voi, ogni bene e benedizione da Dio. Vegli su di noi la martire santa Agrippina, testimone credibile della fede, ci assista la beata Lucia, vergine consacrata a Dio, ci protegga san Giacomo, glorioso apostolo del Signore e nostro patrono, ci accompagni nell'esodo della vita il venerabile Padre Innocenzo, infaticabile pellegrino di pace e di bene. A Maria, Madre della Chiesa e regina degli Apostoli, chiedo di invocare la Pentecoste dello Spirito su di me e su di voi, per essere pronti per la missione alla quale il Signore ci chiama.

Adesso lascio che le parole cedano il posto alla preghiera, alla quale vi chiedo di associarvi con me e per me:
Conducimi tu Pastore grande ed eterno della tua Chiesa. Conducimi al popolo che mi affidi. Sorreggi la mia debolezza. Dammi la tua Parola. Custodiscimi nel tuo amore. Portami tu. Mettimi sulle tue spalle e guida i miei passi, ora che mi invii ad amare e servire, guidare e custodire la Chiesa di Caltagirone.
A te Signore, Pastore buono e forte, la mia e la nostra lode. A te Signore, Vescovo della Chiesa tua sposa, ogni gloria, lode, onore e benedizione, nel tempo e nell'eternità. Amen
.

30-GEN-2010 23:01 Da:CURIA O.F.M. CAPP. PA fra Calogero Peri

lunedì 1 febbraio 2010

31 gennaio. BENEDETTO XVI: “LA CARITÀ È IL DISTINTIVO DEL CRISTIANO".

Oggi 31 gennaio 2010, festa di San Giovanni Bosco, pubblichiamo il testo della riflessione di Benedetto XV all'Angelus. E' un invito per tutti i cristiani, in modo particolare per i sacerdoti e gli educatori: la carità è il nostro distintivo.

Cari fratelli e sorelle!
Nella liturgia di questa domenica si legge una delle pagine più belle del Nuovo Testamento e di tutta la Bibbia: il cosiddetto “inno alla carità” dell’apostolo Paolo (1 Cor 12,31-13,13). Nella sua Prima Lettera ai Corinzi, dopo aver spiegato, con l’immagine del corpo, che i diversi doni dello Spirito Santo concorrono al bene dell’unica Chiesa, Paolo mostra la “via” della perfezione. Questa – dice – non consiste nel possedere qualità eccezionali: parlare lingue nuove, conoscere tutti i misteri, avere una fede prodigiosa o compiere gesti eroici. Consiste invece nella carità – agape – cioè nell’amore autentico, quello che Dio ci ha rivelato in Gesù Cristo. La carità è il dono “più grande”, che dà valore a tutti gli altri, eppure “non si vanta, non si gonfia d’orgoglio”, anzi, “si rallegra della verità” e del bene altrui. Chi ama veramente “non cerca il proprio interesse”, “non tiene conto del male ricevuto”, “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (cfr 1 Cor 13,4-7). Alla fine, quando ci incontreremo faccia a faccia con Dio, tutti gli altri doni verranno meno; l’unico che rimarrà in eterno sarà la carità, perché Dio è amore e noi saremo simili a Lui, in comunione perfetta con Lui.

Per ora, mentre siamo in questo mondo, la carità è il distintivo del cristiano. E’ la sintesi di tutta la sua vita: di ciò che crede e di ciò che fa. Per questo, all’inizio del mio pontificato, ho voluto dedicare la mia prima Enciclica proprio al tema dell’amore: Deus caritas est. Come ricorderete, questa Enciclica si compone di due parti, che corrispondono ai due aspetti della carità: il suo significato, e quindi la sua attuazione pratica. L’amore è l’essenza di Dio stesso, è il senso della creazione e della storia, è la luce che dà bontà e bellezza all’esistenza di ogni uomo. Al tempo stesso, l’amore è, per così dire, lo “stile” di Dio e dell’uomo credente, è il comportamento di chi, rispondendo all’amore di Dio, imposta la propria vita come dono di sé a Dio e al prossimo. In Gesù Cristo questi due aspetti formano una perfetta unità: Egli è l’Amore incarnato. Questo Amore ci è rivelato pienamente nel Cristo crocifisso. Fissando lo sguardo su di Lui, possiamo confessare con l’apostolo Giovanni: “Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto” (cfr 1 Gv 4,16; Enc. Deus caritas est, 1).
Cari amici, se pensiamo ai Santi, riconosciamo la varietà dei loro doni spirituali, e anche dei loro caratteri umani. Ma la vita di ognuno di essi è un inno alla carità, un cantico vivente all’amore di Dio!

Oggi, 31 gennaio, ricordiamo in particolare san Giovanni Bosco, fondatore della Famiglia Salesiana e patrono dei giovani. In questo Anno Sacerdotale vorrei invocare la sua intercessione affinché i sacerdoti siano sempre educatori e padri dei giovani; e perché, sperimentando questa carità pastorale, tanti giovani accolgano la chiamata a dare la vita per Cristo e per il Vangelo.
Maria Ausiliatrice, modello di carità, ci ottenga queste grazie.

Auguri a tutti i componenti della FAMIGLIA SALESIANA.